Forse uno degli insegnamenti che questa quarantena ci ha indirettamente trasmesso è che le nostre prossime case avranno un balcone. Un perimetro limitato, una sporgenza alla quale nessuno fa caso, se non per piantare due piante officinali o dei ciclamini e alla quale in questi giorni abbiamo fatto ritorno come porti sicuri, come colline dalle quali guardare il panorama (di tetti e antenne, di stradine e stendini, di vicoli e palazzi).
Il primo balcone di cui ho memoria è quello di mio nonno. Un balconcino pieno di piante da dove calare il paniere per la spesa, per raccogliere mollette o giocattoli perduti nel cortile sottostante. Essendo la prima nipote, i miei genitori mi parcheggiavano spesso lì per andare a lavoro e – tra una merenda e una puntata di Heidi – i miei nonni avevano anche allestito una piccola altalena sulla quale mangiare pan bagnato di olio e pomodoro dondolandomi.
Nella prima casa in cui ho vissuto avevamo una striscia di balconcino che iniziava dalla camera che dividevo con mio fratello e sorella e si allungava fino alla camera dei miei. Affacciava su una pescheria ed era vicinissimo al mercato rionale. Troppa confusione. Lo usavamo solo per stenderci i panni. Non c’era neanche lo spazio per fare un giro completo e manovra con il triciclo. Quando lasciammo gli 80mq di via XXV aprile per trasferirci in campagna avevo 8 anni, a 10 km dalla città. Avevamo tanti balconi. Mai utilizzati. Scorrazzavamo liberi sul portico al piano terra della casa, nel prato, sulla ghiaia, tra la sabbia e la polvere dei lavori della casa, ancora in costruzione.
Quelli che mi facevano più paura di tutti erano i balconi della mia nonna materna, in un appartamento signorile posto al sesto piano di un edificio anni ‘60. Non guardavo mai in basso, non mi sporgevo mai. Uscivo solo per gettare la spazzatura e rientravo immediatamente in cucina, quasi temessi che potesse crollarmi il pavimento sotto i piedi da un momento all’altro.
Quando andai all’università nella casa di Viale dei Mille non c’erano balconi. Non si stendevano neanche i panni fuori dalle finestre. Feritorie che davano nella corte interna. Quello c’era. E quella fu la cornice di varie feste universitarie, dove il vino (scadente) lo sorseggi nei bicchieri (di plastica) e i capelli appena lavati sanno di sigaretta, che ciccherai dalle finestre. Eco delle risate rimbombava nella corte, arrivava dritto alla padrona di casa che ci odiava perché eravamo calabresi.
E oggi, cosa sono i nostri balconi? Degli appigli di socializzazione? Ma soprattutto che piantine ci metto?